Marta

Diario della gravidanza di Marta. Capitolo sei

Post parto

Mio figlio era nato, ed era stato tutto molto doloroso, ma non immaginavo che il post parto, sarebbe stato forse ancora più duro. Portarono il piccolo in sala nascita per tutte le cure neonatali, mentre a me “riassemblavano i pezzi”.
Scoppiavo d’amore e di felicità ma la stanchezza cominciava ad assalirmi. Avevo bisogno di dormire. L’effetto della spinale era ancora in corso, perché dall’ombelico in giù non percepivo proprio nulla. Dopo aver terminato e infuso la morfina, mentre mi riportavano in stanza, incrociai gli sguardi inebriati di Antonio, dei miei genitori e dei miei suoceri, che mi accolsero tra lacrime di gioia. Guardai mio marito e mentre le lacrime gli rigavano il volto gli chiesi se l’avesse visto. Annuì e aggiunse :”è bellissimo”. Nostro figlio! Finalmente dopo tanti mesi, trascorsi tra incertezze e paure, era nato e aveva appena cominciato a riempire le nostre vite.

Il rientro in stanza

Da infermiera avevo mobilizzato tante volte i pazienti dalla barella al letto, dopo essere stati sottoposti ad un intervento chirurgico. Stavolta però la paziente ero io, per cui capii come si sentivano. Quel semplice gesto infatti si rivelò quasi un’impresa titanica. Potevo muovere praticamente solo il mezzo busto. Dovetti strisciare con la parte superiore del mio corpo, perché le gambe addormentate di certo non avrebbero potuto collaborare. Fortunatamente le infermiere si sostituirono a me, almeno per quello. Ero finalmente nel mio letto. Sfinita. Con un occhio chiuso e uno aperto, intravidi la mia adorata sorella Anna. Era passata a darmi un volante bacio affettuoso, non senza aver prima litigato con le infermiere, perché le permettessero almeno di salutarmi, vista la tarda ora della notte. Fu mitica come sempre, poi mi diede un bacio in fronte, e se ne andò con gli occhi lucidi. “Grazie Nì per la tua presenza costante”!

Quando l’effetto dell’anestesia svanì

Provai ad appisolarmi perché mi sentivo davvero come “un mocho per lavare per terra”. Ero sfinita. Pensai: “oddio finalmente posso dormire”. Crollai pesantemente. Trascorse davvero pochissimo tempo, che sobbalzai per il dolore. L’effetto dell’anestesia spinale era terminato. Cominciai a sentire a livello dell’addome delle contrazioni fortissime, come quelle percepite nelle ultime 12 ore di travaglio. Era come se tutti i miei organi si stessero contorcendo, uno ad uno. Urlai tra me e me. Le gambe pesanti e formicolanti, cominciavano a “risvegliarsi”. Mi sentivo malissimo. In lontananza percepii delle voci ed un cigolio di rotelle che si avvicinava. Avrei appreso dopo qualche minuto, che si trattata della culla in cui si trovava mio figlio, le cui rotelle emanavano un rumore stridulo e fastidioso.
Piangevo e mi vergognavo. Avevo un desiderio immane di guardarlo, stringerlo, accarezzarlo, ma non ce la facevo. Non riuscivo a muovermi, avevo necessario bisogno di riprendermi, ma non ne avrei avuto tempo. Dovevo mantenere la posizione supina (sdraiata ovviamente) per 24 ore senza muovermi di 1 solo cm, senza bere né mangiare. Dissi all’infermiera pediatrica di provare molto dolore, ma senza curarsi troppo di me, mi adagiò mio figlio sul petto e se ne andò. Sprofondai in un abisso di disperazione e realizzai che se non avessi avuto in braccio mio figlio, bensì tra le mani un qualsiasi oggetto contundente, glielo avrei lanciato furiosamente addosso. Fortunatamente però, prima di commettere qualcosa di illecito, arrivò un’ostetrica gentilissima che mi aiutò con fare quasi materno.
Lei riuscì con estrema delicatezza e professionalità a farmi capire come allattare mio figlio al meglio, nonostante le difficoltà e le incertezze, a cui avrei dovuto far fronte anche nei giorni successivi. L’ostetrica capì che non avrei potuto tenere con me il bambino quella notte. Non avrei potuto occuparmi autonomamente di lui, perché mi era stato fatto divieto di alzarmi e in ogni caso, per il dolore intenso che provavo, facevo fatica anche a tenerlo sul petto per allattarlo. Mi dispiacque tantissimo. Piangevo e mi sentivo inutile e inadatta. L’ostetrica capì il mio stato d’animo, e un po’ come fosse una mamma, mi esortò a concentrarmi sulla graduale ripresa psico-fisica di cui avevo bisogno, piuttosto che naufragare nei sensi di colpa. Riportò il piccolo al nido.
“Collassai” totalmente, anche se per via dei dolori ogni tanto mi svegliavo.

“Tro-tro-tro-tro-tro”. Svegliaaaaa !!!!!! cigolio di rotelle = arrivo del bimbo nella culla e poppata. “Mamma mia signò tuo figlio ha pianto tutta la notte, ti farà vedere i sorci verdi”. Disse l’infermiera stronza al posto del “buongiorno” ( e qui non ometto la parolaccia perché quando ce vò ce vò!). Come far sentire ancora peggio una neo mamma che già si sente uno schifo, per non essere riuscita a prendersi cura del suo bambino? Non seppi risponderle niente, non avevo nemmeno le forze per oppormi a quell’uscita infelice. Spesso ci si dimentica l’umanità e in un ospedale, dove ci si dovrebbe sentire più protetti, capita purtroppo, di ricevere trattamenti di questo tipo.
Mi concentrai su mio figlio. La seconda poppata andò meglio della prima. Non egregiamente, perché i miei capezzoli retrattili mi remavano contro. Eppure il bimbo sembrava accontentarsi, ma soprattutto, come natura vuole, sapeva già in che modo nutrirsi, come l’aveva saputo fare già da subito. Intanto i dolori forti continuavano a più riprese, era un continuo di antidolorifici, che sembravano davvero fare l’effetto dell’olio sull’acqua. C’erano poi delle cose che speravo davvero non accadessero ulteriori volte, tipo gli starnuti e i colpi di tosse. A questo proposito:

DOMANDINA

“Mamme cesareo” avete maledetto anche voi starnuti o colpi di tosse nel post parto? Era un’agonia quando capitava, o sbaglio?


Finalmente tutti e tre insieme

Arrivò la sera. Antonio poté finalmente conoscere suo figlio. Ebbene sì, dopo 20 ore dalla sua nascita, il papà non aveva ancora stretto tra le braccia il suo bambino. Entrò in stanza si sedette accanto a me. “Com’è piccolo” esclamò tra le lacrime, poi lo prese e lo strinse a sé, come per farsi riconoscere, come per trasmettere a quel cucciolo d’uomo tondo tondo, tutto l’amore che provava. Ci concessero di trascorrere un paio di ore insieme e fu meraviglioso, anzi decisamente miracoloso. Il miracolo della vita si era compiuto attraverso il nostro amore e lo stavamo guardando negli occhi.

papà e figlio

Il post parto del giorno dopo

Le prime 24 ore dal parto erano trascorse. Seppur duramente, ma erano trascorse.
Il giorno successivo, nel secondo giorno post-operatorio tra dolori e poppate, mi tolsero il catetere.

La sofferenza che provai nel momento in cui insieme a due infermiere provai ad alzarmi, non credo riuscirò a spiegarla a pieno.

Le gambe non mi sostenevano. I crampi addominali mi imponevano di incurvarmi su me stessa.

Mi sembrava di dover muovere una montagna. La montagna da spostare ero io stessa però. Questo era il problema più grande da risolvere. Come un bradipo in agonia guardavo la porta del bagno, a soli due metri da me, come fosse un miraggio nel deserto. “Evviva mi sono seduta! C**** e mò chi mi rialza” . Ma ero andata già troppo avanti. Avrei dovuto prima fare pipì. Forse provai anche i dolori del parto naturale, non lo so, perché anche quel piccolo, consueto e normalmente indolore gesto, mi sembrò una tortura. Mi assicurai di averla fatta tutta, pur di non dover partire di nuovo per le crociate, verso un suicidio assicurato. Alla fine tornai a letto e cercai di sdraiarmi con la stessa difficoltà con cui mi ero alzata mezzora prima.
Mi fecero un’altra concessione. Bagnarmi le labbra “pe-pe-pe-pe-pe-pe-pe” io che di norma bevo 2 litri e oltre di acqua al giorno?!? aiutooooo non ne potevo più.
Le visite di parenti/amici/amici di parenti/parenti di amici ecc ecc… continuavano e tutti ripetevano la stessa identica frase:“ è identico al papà, però ha le tue orecchie”. Non che mi dispiacesse figuriamoci, ero consapevole di aver partorito mio marito in miniatura. Ma santa pace, dopo tutta la sofferenza, manco la soddisfazione della somiglianza??? però aveva le mie orecchie …

A-VA-BBE’.

“Rullo di tamburi”

Breve altra storia. Il terzo giorno post-operatorio cominciò con un ammonimento da parte del personale sanitario, rivolto a me e alle due compagne di stanza. “Dovete liberare l’intestino”. In poche parole dovevamo far arieggiare i nostri posteriori. “Uh Gesù”. Io che non mi sono mai data delle arie alle mie spalle, dovevo far suonare i tamburi. Non si poteva di certo soprassedere, perché se non l’avessi fatto, non mi avrebbero dimessa il giorno seguente. “Ma anche no, voglio tornare a casa” mi dissi tra me e me. Mi misero una peretta in mano.

Fine della storia.
In compenso però dopo aver assolto, parzialmente per me, (totalmente per ginecologi and co.) il compito assegnatomi la mattina, finalmente vidi qualcosa di commestibile sul tavolino.
Fette biscottate e tè. Le mangiai con la stessa foga di un facocero.

colazione in ospedale nel post parto

Passò anche quella giornata e piano piano riuscivo ad occuparmi sempre meglio del piccolo, con non poche difficoltà devo ammetterlo, perché i dolori erano ancora molto forti, ma il mio amore per lui andava davvero oltre tutto il resto. Arrivai quasi arrancando al quarto giorno post-operatorio, il giorno in cui finalmente saremmo tornati a casa. Dovevamo entrambi passare al vaglio dei medici. Intanto, nonostante le tante tutine carine portate al piccolo per il ricovero e i diversi cambi anche per me, all’uscita eravamo tutti e due un po’ imbrattati di rigurgito lattescente. Era cosparso tra i miei capelli e depositato nell’incavo tra la clavicola e il collo. Quella fu una condizione inevitabile con la quale imparai a convivere senza farci troppo caso. Anzi, enfatizzavo ironicamente l’importanza nell’uso del gel naturale per capelli, a base di “latte di Chicco”.
Squillo del telefono. Dentro di me penso, “questo sarà Antonio che sta facendo a cazzotti con il passeggino, mi ci gioco casa”. “Amò senti ma come si chiude sto coso”.
The winner is … Martaaaa!
“Lo sapevo”.
Dopo averlo redarguito a dovere sull’essersi fatto trovare impreparato, dopo che per due mesi lo avevo esortato a seguirmi nelle indicazioni ed aver ottenuto come risposta “ e che ce vò”, gli spiegai in maniera molto elementare, le operazioni di apertura e chiusura dello “sposta bambino”. Ah gli uomini …

Le dimissioni

Nullaosta per noi. Potevamo tornare a casa. Non mi sembrava vero. Avevo la sensazione di essere entrata in quell’ospedale una vita prima, in realtà, realizzai che fu proprio così. Ero entrata con la pancia enorme della mia vita precedente, quando inconsapevole e impreparata, non avevo la minima idea di cosa significasse profondamente diventare madre. 4 giorni dopo ne ero uscita con il dono più grande che Dio potesse farmi. Mio figlio.
Ero ancora ignara di molte cose, ma sapevo con certezza che fossi nata per quello.
Io ero nata per essere la madre di mio figlio. Imperfetta, troppo precisa, maniacalmente attenta, ma perdutamente innamorata di quell’esserino meraviglioso che aveva stravolto la mia vita, migliorandola.
A lui dovevo e devo tutto. Mi ha insegnato a vivere, ad amare senza pretese, a ridere di gusto e piangere inconsolabilmente.

Mi ha insegnato che pur essendo piccoli, si può essere davvero grandi.
Grazie a lui so cosa significhi veramente vivere per e in funzione di qualcuno, perché io vivo per e in funzione di lui, pur mantenendo la mia identità di donna (o almeno ci provo).
Lui rappresenta una delle più grandi riuscite della mia vita.

Il mio meraviglioso principino con gli occhi che sorridono.
E’ parte del mio tutto, del mio mondo.

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Diario della gravidanza di Marta. Capitolo cinque

L’arrivo in ospedale

Erano solo le 5 del mattino quando arrivai in ospedale e non ero ancora in travaglio ovviamente e il parto era decisamente lontano. Ci sarebbe voluta ancora qualche ora. Un’ostetrica simpaticissima mi attaccò al monitoraggio e mi chiese: “sei a termine? ” “si sono a 39 più 4” le risposi. ” Mettiti comoda signò, ci potrebbero volere pure 48 ore”.
Risultato = donna in procinto di partorire, terrorizzata. Alla faccia della solidarietà femminile, pensai.
Dopo più di un’ora interminabile, mi diedero la stanza. Stanza 2 letto 2 e mi feci prendere da un istinto convulso di disinfettare praticamente tutto. L’armadio, il comodino, le finestre e la tazza del WC, stile anti-Covid dei giorni nostri. Le ore passavano, conobbi le mamme in dolce attesa che avrebbero condiviso la stanza con me. Arrivavano messaggi, chiamate, visite. Ma tutto il resto, quello importante, taceva. Intorno a metà mattinata tornai di nuovo nella stanza del monitoraggio insieme ad Antonio e immortalammo gli ultimi momenti in cui saremmo stati solo in due.


Verso l’ora di pranzo seguii la ginecologa di turno nella stanza delle visite.
Controllo della situazione ai piani bassi. Ennesime dita che “smanacciavano” lì dove non batte il sole. Tutti ad attingere alla stessa fonte.
“Ci vorrà solo un attimo” disse la dottoressa. Nemmeno il tempo di rispondere che, con due movimenti rapidi e circolari, mi lasciò con la sensazione che dovessi raccoglierla da sopra il lettino, tanto mi avesse fatto male. Naturalmente non voglio fare del terrorismo psicologico, sia chiaro. Perché ogni mamma è a sé, così come la percezione e la soglia del dolore, ma lo scollo dell’utero, fu una vera e propria tortura. Per carità stava solo facendo il suo lavoro, quella donna, ma ebbi quasi l’istinto di ucciderla. Posso fare questa ammissione?. Naturalmente l’unica cosa che seppi fare, fu tacere e morire interiormente dal dolore. Tornai in stanza.

Il travaglio vero e proprio

Erano le 13 del pomeriggio quando entrai nel travaglio vero e proprio. C’era un via vai di gente. Familiari in visita per me e le compagne di stanza. Non riuscivo a sopportare niente e nessuno. Mi sentivo soffocare tra quelle quattro mura. I dolori si facevano via via sempre più forti. Tutti mi guardavano, ma io ero troppo attenta a deviare gli sguardi delle persone, piuttosto che pensare alla respirazione e tutte quelle cose fondamentali del travaglio. Avevo solo bisogno di concentrarmi sul viso di Antonio e sul tono di voce pacato che usava, per parlarmi e distrarmi. Le contrazioni cominciavano ad avere una cadenza regolare. Non potevo più stare in mezzo ad un mare di gente in un momento particolare e delicato come quello. Anche in quella circostanza venne scattata qualche foto, la mia “sofferenza” era palpabile.

Donna in travaglio

Con passo felpato, sostenendomi il cocomero O.G.M. formato XXL che avevo al posto della pancia, me ne andai finalmente nella stanza del travaglio con Antonio al seguito. Rimasi praticamente sdraiata sulla poltrona per 12 ore, intervallate solamente dal “mi scappa la pipì, vado in bagno”. Antonio era semplicemente, FENOMENALE. Il ragazzo di 25 anni che era stato in lui fino ad allora, aveva lasciato spazio all’uomo e ormai quasi papà, consapevole che non avrebbe potuto sostituirsi a me, né tanto meno alleviare il mio dolore, ma avrebbe potuto sapientemente e coraggiosamente accompagnarmi in quel cammino, per me in particolar modo, fisicamente e mentalmente doloroso, che ci avrebbe condotto verso la nascita di nostro figlio.

Un intero travaglio seduta

Intanto continuava l’andirivieni di ostetriche, ginecologhe, infermiere, ecc ecc … . Verso l’ora di cena, Antonio ebbe la splendida idea di farci portare la pizza ed io, che ne farei indigestione, accolsi l’idea con grande enfasi, tipo bambina felice davanti al negozio di caramelle. Mentre mi abbuffavo di pizza, guardavamo sul cellulare la partita di serie A del Milan, che poco prima dell’intervallo perdeva 1 a 0 contro l’Atalanta. Potete immaginare quanto amore provasse Antonio nei miei confronti?.

Rimase seduto immobile su una sedia per 12 ore. Sorbì e subì i miei deliri farneticanti. Ma il sacrificio più grande in assoluto fu guardare una partita del Milan nonostante la sua fede calcistica per l’Inter.

Così, distratta dalla cena e dalla partita, accoglievo inconsciamente le contrazioni, in modo dolorante, ma quasi sopportabile. A 3 minuti dal fischio finale, la mia squadra del cuore riuscì a pareggiare una partita poco entusiasmante. Digerita la scorpacciata e non più deconcentrata da altro, i dolori si fecero sempre più insopportabili.

Epidurale o non epidurale. E’ questo il dilemma

Avevo deciso di partorire in un ospedale in cui non sarebbe stata praticata l’epidurale per alleviare il dolore durante il travaglio. Di questo ero più che consapevole, ma ci fu un momento in cui implorai che mi dessero qualcosa.

Mi resi conto che all’arrivo di ogni contrazione, smettessi di respirare. Me ne accorgevo qualche secondo prima perché riuscivo ad identificarle attraverso il monitor del tracciato, ma non potevo fare a meno di restare in apnea.

Mi scese una lacrima. Ero stanca, afflitta e sconsolata. Dolorante, ma al tempo stesso trepidante di vedere mio figlio venire al mondo.

Avevo perso la lucidità. Sapete che fui investita da una macchina, alla tenera età di tre anni? e come allora, forse per istinto di sopravvivenza e per tutta la vita, ho sempre avuto un’ altissima soglia del dolore. In quella circostanza però, non ne potevo più.

Le apnee continuavano. I controlli del ginecologo papà castoro e delle ostetriche si facevano sempre più frequenti, fino a che mi girai verso Antonio e vergognandomi gli dissi che forse non ero in grado. Mi guardò e in modo dolcemente autoritario mi disse testuali parole “ se tu non respiri, non respira nemmeno Chicco (nomignolo). Vuoi che lui non respiri???????”. Fu come se mi avesse dato uno schiaffo per farmi riprendere da uno svenimento. Servì però. Fu tutto più nitido. Ennesima volta che Antonio riusciva a dimostrarsi per l’uomo che era diventato. Fu davvero di vitale importanza averlo con me per tutto quel tempo. E ancora oggi, a distanza di 5 anni e mezzo, ringrazio Dio per averlo avuto accanto in quel delicato, difficile, importante e irripetibile momento della nostra vita insieme.

PICCOLA POSTILLA

Ho descritto un Antonio FENOMENALE in diverse occasioni, ed ho tenuto a sottolinearlo con grande riconoscenza e commozione. Ciò non vuol dire però che sia perfetto o perfetta sia io o la nostra storia. Anzi tutt’altro che questo. Il nostro, come qualsiasi altro rapporto di coppia, non è, non è stato idilliaco e non lo sarà mai. Ci sono alti e bassi, a volte più bassi che alti. Non siamo di certo la famiglia del Mulino Bianco. Bensì un uomo, una donna. Un marito e una moglie. Un papà e una mamma con i loro amatissimi pregi e i loro fastidiosissimi difetti.

Dopo il pacato ammonimento di Antonio capii che dovevo cambiare categoricamente modo di approcciarmi a quella situazione. Presi coscienza che agire e reagire in quello stato confusionale, (restando in apnea e irrigidendomi completamente), non solo non avrebbe condotto a nulla , bensì avrebbe apportato meno ossigeno al bambino, e portato me all’esasperazione.

Capii quale fosse il modo più adatto.
Dovevo uscire dal mio corpo, ma al tempo stesso restarci dentro con l’aiuto di una giusta e regolare respirazione.

Penserete “ma che hai detto? mò questa parla pure di esperienze extra corporee.. se vabbè…” . Non parlo ovviamente di strani riti ultra terreni, ma di un atteggiamento consapevole difronte al dolore. Non potevo evitarlo, ma affrontarlo questo sì. Ero obbligata. Antonio mi aiutava, avvertendomi dell’arrivo della contrazione attraverso il monitor . “Amore, preparati sta per arrivare”, mi diceva. In questo modo potei accogliere con dolore, non lo nego, ma anche con grande forza, lo tsunami che si scatenava in me durante la contrazione. Diciamo che il procedimento era presso a poco questo:
– Accogliere la contrazione: inspiravo profondamente e lentamente ad occhi chiusi.
– Ammortizzare il dolore: al momento dell’arrivo, facevo un’espirazione lunga e controllata che accompagnava il dolore, fino a che lo stesso si attenuava gradualmente.
Andai avanti in questo modo, con quel dolore forte, a tratti insopportabile, per un tempo che mi sembrò infinitesimale, ma la “strategia adottata: esci da questo corpo/rientra in questo corpo” mi aiutò davvero.

Il parto

Era all’incirca 00:15. Riprese la processione delle ostetriche/infermiere/ginecologo. Altro rapido controllo al pian terreno. 1 cm di dilatazione. Devo dirlo di nuovo. Dopo quasi 12 ore di travaglio ero dilatata di 1 solo dannatissimo e maledettissimo cm.
Non riuscivo a capacitarmi. Mi vennero in mente le parole della prima ostetrica che incontrai la mattina. Si proprio quella che mi disse di mettermi comoda, perché avrei potuto impiegarci anche 48 ore. “Me l’aveva tirata” per caso?.
Mi immaginai dopo due giorni di travaglio e di stimolazione farmacologica con ossitocina, spingere urlando paonazza in volto, completamente madida di sudore, con la cipolla scomposta in testa, cadente sul viso, come quelle nei film, che solo a vederle passa a priori la fantasia di fare figli.
Invece no.
“Marta mi dispiace ma dobbiamo prepararti per il cesareo”. Mi dissero. Volete proprio saperlo? In cuor mio e in una piccola porzione del mio cervello, sapevo esattamente che sarebbe andata così. Sapevo che mio figlio sarebbe nato con un parto cesareo, non mi chiedete il perché, ma lo sentivo.
(A posteriori avrei saputo dal ginecologo che se non fossero intervenuti con un cesareo, avrei potuto trascorrere altri nove mesi su quella poltroncina, perché mio figlio, nonostante fosse in posizione cefalica già dal settimo mese di gravidanza, aveva deciso di piegare la testa da un lato, in termini tecnici, distocia cervicale, all’atto pratico, stava bene comodamente dove stava).
Da quella notizia in poi però, crebbe la mia frustrazione. Ero stanca. Sfinita. Volevo stringere il mio bambino e dormire. Il primo desiderio sarebbe stato fortunatamente realizzato, per il secondo, ne riparleremo tra 100 anni.
Catetere. Camice. Barella.
“Marta saluta Antonio”.
A questo non ero proprio preparata. Pensavo che mi avrebbe assistita in sala operatoria, come lo aveva fatto durante tutto il travaglio. Che mi avrebbe accompagnata fino alla fine di questo “percorso”. Che mi avrebbe tenuto stretto la mano e ci saremmo emozionati insieme, ascoltando il primo pianto di nostro figlio. Ahi-noi non fu così. Mi tolsero la vicinanza dell’unica persona di cui avevo bisogno in quel momento. Fu davvero dura per entrambi. Antonio era visibilmente affranto e dispiaciuto. Avevamo fatto tutto quel cammino insieme per poi essere separati sul più bello. Mi baciò calorosamente con gli occhi pieni di lacrime e non potei fare a meno di piangere anche io. Ci guardammo teneramente finché non scomparii entrando nell’ascensore che mi avrebbe portata direttamente in sala operatoria.
Mi sentivo persa senza di lui, ma restava un ultimissimo sforzo da fare per tutti e tre.

La sala operatoria

Sala operatoria, odore acre di antisettico. Strumentario chirurgico sterilizzato e maniacalmente ordinato, pronto per essere usato su di me. Non avevo paura in questo senso. Non mi hanno mai impressionato bisturi, aghi, divaricatori ecc ecc … anzi non vedevo l’ora che finisse tutto per il meglio, non dico che “fremevo dalla voglia di farmi tagliare come un pollo”, ma volevo conoscere mio figlio.
L’anestesista disse: “Marta ora dobbiamo fare la puntura spinale, ma devi stare molto ferma e pronta perché dobbiamo sfruttare l’intervallo tra una contrazione e l’altra”. Ricordo per la stanchezza, di essermi quasi accasciata sull’infermiera che mi teneva stretta davanti. Puntura dell’ago. Forte pressione dietro la schiena. Andata. Mi adagiarono delicatamente sul letto.
Posizione a 4 di spade. Al braccio sinistro sfigmomanometro per monitorare che la pressione non schizzasse alle stelle o subisse un netto calo e tenere sotto controllo tutte le altre funzioni vitali. Al braccio destro ago cannula e infusioni varie.
Gambe stese, una da un lato una da un altro. Voci che parlavano, che mi domandavano, mi rassicuravano. Papà castoro mi chiese come mi sentissi. “Ah beh, ricordavo di avere un paio di gambe qualche minuto fa”. Immobilità. Insensibilità. Non riuscire a muovere gli arti inferiori fu davvero una sensazione bruttissima. Non vedevo nulla naturalmente, perché c’era un telo verde difronte a me, ma provai ad immaginare la coppia di Edward mani di forbice tagliuzzare diversi strati della mia pelle.
Si percepiva nell’aria un olezzo di carne bruciata, come l’odore che si sente entrare nel naso dopo aver acceso una sigaretta e insieme a quella anche i peli delle narici annessi. L’odore era pungente. Quello che sentivo bruciare era ovviamente la mia pelle sotto il bisturi elettrico. Le mani continuavano ad operare. Il cadenzato “bip” dei monitor suonare…

La vita

Quand’ecco irrompere nell’aria il suo primo flebile vagito, susseguito da un pianto acuto. “Eccolo questo bel maschietto, come lo chiamerai MAMMA?”. “Francesco” e di getto aggiunsi, “sta bene?” “il vitellino sta benissimo MAMMA”. (naturalmente se per papà Castoro lo era stato per tutti i nove mesi, non poteva che esserlo anche alla nascita ovviamente).

14.05.2017
ore 01.00
3,3 kg
51 cm

Francesco, che sarebbe dovuto nascere 4 giorni dopo, nacque non solo nel giorno del compleanno del mio adorato nonno Francesco, per tutti Giulio (si lo so questa è buffa ve la spiegherò un giorno), ma anche della festa della mamma, facendomi il regalo più bello che abbia mai ricevuto in vita mia.

Ero diventata MAMMA a tutti gli effetti, non riuscivo a crederci. Le lacrime scendevano a cascata. Scoppiavo di felicità. Lo avevo già amato dal primo momento in cui scoprii di aspettarlo, ma ora lo amavo consapevolmente.

Lo avvolsero in un telo mentre piangeva ancora e lo adagiarono delicatamente accanto al profilo del mio viso. “Benvenuto al mondo amore di MAMMA” gli dissi e improvvisamente tacque quando lo baciai in fronte.

Foto nascita

Era mio FIGLIO. Attraverso il mio corpo, era stata messa al mondo una vita. La sua.
Io ricordo ancora tutto di quella notte.
La ricorderò per tutta la vita. Quella è stata la notte in cui dopo tante ore di attesa e una bella cicatrice a forma di sorriso sulla pancia, insieme a lui sono rinata anche io. Posso dire che lui sia stato il primo, che sa, come batte il mio cuore da dentro.

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Diario della gravidanza di Marta. Capitolo quattro

Ultimi giorni di gravidanza

Mi trovavo negli ultimi giorni di gravidanza per cui Antonio tornò dalla Germania per restare con me di lì in avanti. Era il primo maggio e trascorremmo una bellissima giornata al mare. Stavo quasi esplodendo nella mia pancia da gravidanza formato maxi. Devo ammettere che non mi sono mai sentita particolarmente bella, in gravidanza e non, ma quel giorno, con quella salopette che delineava perfettamente le mie forme, e probabilmente le ingigantiva ancora di più, mi sentivo sinceramente a mio agio, forse mi piacevo anche un po’. Quel pancione si sarebbe più che dimezzato in pochi giorni, e mi sarebbe mancato.

I giorni passavano e ovviamente mi sentivo stanca, stressata, spossata, ingombrante, insofferente, irritabile, ansiosa, preoccupata, trepidante, felice … e un altro milione e mezzo di stati d’animo e fisici contrastanti tra di loro. Era un tiepido tardo pomeriggio di primavera ormai inoltrata e con Antonio decidemmo di andare al cinema in un centro commerciale alle porte di Roma. Nelle sale davano Fast & Furious 8.
Nonostante stessi per esplodere non potevo perdermi Vin Diesel nei panni di Dominick Toretto, con il suo fascino d’oltre oceano in canotta bianca e capezza al collo. Le poltroncine, stavolta non erano le Savonarola in massello di cipresso. Erano piccole, scomode e a malapena avevano assolto il loro compito di accogliere il mio sedere allargatosi durante i nove mesi di gravidanza. Colpa delle “3 P.” sicuramente. Che fatica trovare una posizione comoda.
Per non parlare poi della pochissima distanza tra la mia poltroncina e quella davanti. Provai 750 000 posizioni per evitare che le mie caviglie diventassero dei cotechini da cuocere a capodanno . Quando finalmente trovai la giusta posizione scorrevano sullo schermo gigante, i titoli di coda.
Finito il film mi venne la brillante idea di comprare un pensierino per la festa della mamma, che ci sarebbe stata due giorni dopo.
Dove andai? In una gioielleria. A che ora? alle 8 di sera. Si, perché dovete sapere che vedemmo lo spettacolo delle 18. Quello in cui ci sei tu e lo sventurato che ti ha accompagnato. Una comitiva di ragazzi appassionati di motori e non solo. E per finire, le adolescenti con gli ormoni alle stelle che urlavano come oche giulive ogni volta che Toretto si sfilava la conotta. Andammo nella gioielleria dunque, di sabato sera, due sere prima della festa della mamma, seppure col pancione al nono mese di gravidanza, a pochissimi giorni dal termine.
Non mi dilungherò ulteriormente su questo particolare, perché se dessi libero sfogo alle parole dovrei dedicare un intero capitolo all’argomento in questione, per cui andrò direttamente alla fine. Volete sapere il morale della favola? Entrai, feci una fila di 30 minuti in piedi e me ne andai pure senza regalo. La commessa che doveva aiutarmi (palesemente neo assunta), non solo non mi si filò minimamente nonostante mi sia passata almeno 400 volte davanti, ignorandomi, ma disse pure che mi avrebbe mandato immediatamente la collega. Sono passati 5 anni e mezzo, la sto ancora aspettando.
Tralasciando la mia follia, suicida prima e quasi omicida poi, me ne andai con palle di fuoco dagli occhi e fulmini tonanti dal c***, (e chi conosce il film Braveheart, sa di cosa stia parlando).

Notte prima del travaglio

Tornata a casa e ingoiato il rospo per non aver potuto comprare un regalo a mia madre mi misi a letto. Il sonno era disturbato. Non riuscivo a dormire per più di 15 minuti continuativi. Mancava davvero poco al parto. In quegli ultimi giorni ero davvero sfinita. Ma non era come le altre volte. Mi sentivo strana e forse cominciavo ad intuire il perché. Andai in bagno, mi alzai per almeno tre volte consecutive. La pipì non finiva più, “che strano pensai”. Mi rimisi a letto. Chiusi gli occhi. Sentii una strana sensazione di umidità all’altezza del bacino, e verso le gambe. “No vabbè mi sono fatta la pipì addosso” pensai.
Ritornai in me e, riflettendo che fossi a fine gravidanza, capii di non essere ritornata improvvisamente la bambina che aveva avuto i normali problemi di controllo sfinterico di 23 anni prima, ma che avessi rotto le acque.
Antonio era al mio fianco e come al solito dormiva pesantemente. Lo chiamai. Sobbalzò e mi intenerì, perché ancora una volta si sentiva giustamente impreparato. Mi disse: “ oddio che devo fare, cioè che facciamo? Vabbè vado a chiamare tua madre”. Sorrisi, era così tenero, e più impaurito di me che non riusciva a connettere. Partimmo alla volta del pronto soccorso.
Ovviamente insieme a noi c’era super mamma Cris, che dal sedile posteriore cominciava con le prime raccomandazioni ed i possibili scenari riguardanti travaglio e parto. Antonio era impietrito. Muto. Guidava meccanicamente e si vedeva che l’intento era quello di mascherare l’ansia, ma all’epoca non gli dissi che fosse palese. Io intanto cominciavo ad avere i primi sporadici doloretti…

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Diario della gravidanza di Marta. Capitolo tre

Sensazioni e sintomi

Dopo quel terribile episodio, nonostante il tempo corresse, il ricordo di quel brutto momento, era sempre vivo dentro di me, per cui cercavo di cogliere sensazioni e sintomi di una eventuale “depressione da gravidanza“. Avevo l’impressione di non essere del tutto “guarita” da quell’evento e dalla paura che potessero verificarsi altre situazioni spiacevoli . Ma non volevo sprofondare nel pessimismo cosmico e il terrore dell’ignoto non poteva immobilizzarmi a tal punto, da non farmi vivere serenamente la mia nuova vita di donna incinta. Allora decisi che avrei accolto ogni sensazione, bella o brutta che fosse. Dovevo vivere la mia gravidanza.

Andando avanti si modificava il mio corpo, si delineavano le forme. La creaturina si faceva spazio dentro di me e io sentivo l’amore di una madre verso suo figlio. Il miracolo della vita si stava compiendo in me e non potevo che essere infinitamente grata a Dio. Avevamo desiderato nostro figlio con tutte le nostre forze. L’avevamo sognato, immaginato il suo volto innumerevoli volte. Fu quel desiderio irrefrenabile che ci spinse a non effettuare alcun test prenatale. Decisione forse discutibile, ma, passato il rischio di aborto, sembrava come se Dio ci avesse dato un’ulteriore opportunità, che purtroppo tanti genitori non hanno, per cui in qualsiasi caso, noi quel bambino l’avremmo tenuto. Decidemmo di fargli il suo primo regalo. Non conoscevamo ancora il sesso, per cui optammo per una tutina bianca, a cui una nostra amica accostò un paio di Converse bianche.

Tutina per neonato

Una gravidanza italo-tedesca

Di lì in avanti, dopo quel terribile episodio, facevo da spola, Italia-Germania, Germania-Italia a cadenza mensile. In patria venivo seguita dal dottore, che per privacy chiamerò Dr Zeta. Era un omone grande e grosso, che mi ricordava molto papà castoro. Un uomo simpatico e molto ironico, ma anche un professionista serio e preparato, che amava chiamare il bambino che portavo in grembo, “vitellino”. In terra straniera invece, da una ginecologa che era la versione tedesca di Sandra Mondaini. Era minutissima, magrissima, ma soprattutto “cazzutissima”. Devi prendere solo “nove chili in nove mesi” mi disse la prima volta che la vidi e puntualmente quando sapeva che ero stata in Italia, mi redarguiva a dovere.
La sua teoria era questa: a causa delle italianissime tre “P” cioè pane, pasta e pizza, avrei messo su troppi chili, per cui dovevo trattenermi più a lungo possibile in Germania.

Diciamo che provai a stare attenta al cibo, ma fu davvero difficile. Nonostante non fossi una grande fan della pasta, avevo una voglia matta di affondare la forchetta nei 2 etti di spaghetti che sognavo anche a colazione . I mesi trascorrevano, tra nausee che mi facevano uscire gli occhi di fuori, pipì cadenzate ogni 10 minuti, notti insonni, cistiti frequenti e un umore talmente altalenante da fare girare la testa.
Per le nausee poi, “stendo non un velo, bensì un piumone pietoso”. Io facevo parte di quella percentuale di donne che ne hanno sofferto dall’inizio, fino al giorno del parto, anziché solo nel primo trimestre di gravidanza. Le ho odiate con tutte le mie forze, ma fortunatamente c’era una delle “miracolose P a corrermi in aiuto”, il pane. Vogliamo spendere qualche parola anche sull’umore da gravidanza? Una storia tragicomica. Passavo dal lupo all’agnello in una manciata di secondi. Davvero, vivrei un altro milione di volte tutto, pur di avere mio figlio, ma le sensazioni e i sintomi che ho provato, non mi hanno fatto vivere una gravidanza idilliaca.

Poi lo sentii muovere dentro di me. Fenomenale! è il termine più appropriato per descrivere l’arcobaleno di emozioni che mi aveva suscitato quel momento. E fu ancor più entusiasmante quando Antonio mise la mano sul mio ventre e come per salutarlo, nostro figlio diede un colpetto.
Lo guardai commuoversi e potei constatare ancora una volta che le emozioni non conoscono età, sesso, modi di essere e inclinazioni. Straordinario fu anche il momento in cui sentimmo il cuore di nostro figlio battere per la prima volta. Il primo meraviglioso suono legato alla sua vita. Tutto di lui sapeva di meraviglia.

Verso la fine del settimo mese, tornai in Italia, perché decidemmo che avrei partorito lì, non prima di ricevere le ultime dovute raccomandazioni della ginecologa cazzuta e incazzosa. “ M raccomando magia poca pasta” e mentre io annuivo e la tranquillizzavo che avrei seguito alla lettera ogni sua indicazione… mi crogiolavo pensando a quanti gnocchi e fettuccine fatti in casa dalle mani d’oro di mia madre, avrei mangiato. Antonio mi avrebbe raggiunto di lì a poco e dal parto in poi avrebbe avuto due mesi di paternità. Ebbene sì. In Germania accade questo, anzi meglio dire, anche questo. Due mesi ininterrotti, 7 giorni su 7, h 24 tutti e tre insieme. Incredibile, quasi impossibile da credere, ma a dispetto di ciò che nel nostro paese appare un’utopia, in Germania è realtà.

Continua al capitolo 4, Ultimi giorni di gravidanza

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Diario della gravidanza di Marta. Capitolo due

Primo trimestre di gravidanza

Dopo quel fine settimana di scoperte, ritornammo in Germania, dove ci eravamo trasferiti per motivi personali e di lavoro. Dove ci eravamo conosciuti. Dove era iniziata la nostra incredibile e mi piace dire, anche un po’ pazza storia d’amore. Il primo trimestre di gravidanza si sa, è delicato, per cui mi imposi di stare più attenta possibile. All’epoca lavoravo nel reparto di chirurgia generale di un ospedale in provincia di Stoccarda. Continuare a svolgere il lavoro da infermiera era rischioso, per me e per il bambino che aspettavo, per cui andai subito in maternità. Ero incinta da un mese circa e il mio corpo era chiaramente identico a quello di 4/5 settimane prima, eppure sentivo che piano piano ogni parte di me si stava preparando per fare spazio ad un’altra vita.
Una sera, dopo la consueta e imperdibile video chiamata serale con i miei genitori, andai in bagno. Cercai di focalizzare il colore che vedevo sugli slip. Guardavo, ma non volevo vedere. Mi destai dal torpore e realizzai. Una macchia di sangue, di un rosso tenue. . . Mi sentivo sprofondare in un abisso di incredulità. Avevo la sensazione che il cervello volesse uscire fuori dalla testa. Lo sentivo come implodere dentro di me. Provavo a parlare, ma sentivo le grida della donna in me che già si sentiva madre, che non voleva e non poteva credere a ciò che vedeva. Non so come, ma riuscii ad attirare l’attenzione di Antonio. Avrei voluto chiudermi in un ostinato silenzio, ma c’era la necessità di spiegargli quello che stava accadendo e quello che poteva significare, nonostante mi rifiutassi con tutta me stessa di pensare ad alta voce. Lui mi guardava con fare impotente. Mi consigliò di chiamare la sola e unica persona che in quel momento avrebbe saputo senz’altro cosa fare.
Mia madre. Cinque parole: “vai subito in pronto soccorso”, mi disse.
Diagnosi: “ abortus imminens”.
Es tut mir sehr leid Frau Renzetti aber Sie könnten Ihren Sohn verlieren”.
Traduzione: Aborto imminente. “ Mi dispiace molto signora Renzetti ma lei potrebbe perdere il suo bambino.
Il vuoto …
La ginecologa rilevava la presenza di un ematoma sotto placentare, possibile causa del sanguinamento, con conseguente probabilità di aborto imminente. La diagnosi la spinse a ricoverarmi.

Il ricovero

Mi diedero una stanza. La più “fredda” in cui abbia mai dormito. Se ripenso a quei momenti, mi salgono ancora le lacrime agli occhi. Insieme ad Antonio mi avevano accompagnato le mie care amiche Maria e Carmela. Furono così premurose nei miei confronti, che anche oggi a distanza di cinque anni, non posso che ringraziarle infinitamente. Si preoccuparono di tornare nella vicina Sindelfingen in cui vivevamo e recuperare tutto l’occorrente per il mio ricovero in ospedale. Furono anche di supporto ad Antonio che in quel momento, poverino, era sopraffatto dalle emozioni. Era come smarrito e si sentiva impotente difronte a un evento così incontrollabile. Mi chiesero se avessi bisogno di qualcosa in particolare. L’unica che mi venne in mente fu il vecchio compagno di viaggio Ciccio. Chi era? O meglio, cosa era? Un pupazzo. Un incrocio tra un topo e un elefante che io chiamai con il soprannome di chi me lo aveva regalato. Il mio ineguagliabile cugino e anche amico di una vita, Giovanni. Quell’esserino inanimato di pezza, era l’unico bene materiale che si avvicinava alla mia vita passata e che aveva asciugato, inzuppandosi, molte tra le lacrime che avevo versato nella mia vita. Anche quella sera, anche all’età di 26 anni, mi strinsi a quel pupazzo e mi abbandonai ad un pianto disperato, che nessuno purtroppo avrebbe potuto consolare.

Pupazzo di pezza dell'infanzia

Mi svegliai con il turno della mattina il giorno seguente alle 6, quando le infermiere nello stesso ospedale in cui io lavoravo, facevano il giro letti.
Gli accertamenti continuavano: le ecografie, le analisi del sangue, e poi ancora, il monitoraggio delle Beta, la visita ginecologica… e mi sentivo sempre ripetere la stessa identica, fastidiosa e ridondante frase. “ Es tut mir sehr leid Frau Renzetti, aber …….. bla bla bla bla bla bla”.
Nessuna novità, nessuna buona notizia, nessun miglioramento.
L’ ematoma sotto placentare era ancora lì, fiero e spavaldo di aver preso posto in prima fila, in uno spettacolo in cui non era stato nemmeno invitato. Non solo, si era indebitamente appropriato del ruolo di protagonista. E cosa potevo fare io? Niente purtroppo. Dovevo solo aspettare e pregare.

Le dimissioni

Quattro giorni dopo mi dimisero. Tutti i dottori che mi avevano visitata davano quasi per certo che sarei andata incontro ad un aborto spontaneo, ma clinicamente parlando, loro avevano fatto il possibile perché questo non accadesse. Tornai a casa con il cuore infranto. Non posso negare che una parte di me si stesse aggrappando disperatamente ad una speranza. Ma ero terrorizzata.
Antonio sarebbe dovuto necessariamente tornare a lavoro, così come le mie amiche, ed io sarei rimasta nuovamente sola con il mio dolore, come lo ero stata in ospedale. Erano tutti così dolci, comprensivi e delicati, ma nessuno poteva comprendere pienamente quanto il mio cuore sanguinasse. Decidemmo, con non poche remore, di consultare un ginecologo in Italia. Sapevo di correre un rischio mettendomi su un aereo, da sola con quel puntino in difficoltà che portavo in grembo, ma la mamma che era in me, pregava di vederlo venire alla luce. Erano necessari ulteriori approfondimenti, per cui partii.

Il ritorno in Italia

SMS del 28.09.2016, 14:16

Io. – “siamo atterrati cuore”
Antonio. – “ già mi manchi da morire vita mia. Fammi sapere TUTTO”

Nei messaggi che gli inviai, parlavo già al plurale. Era come se il mio bambino fosse già con me e io ero già la sua mamma. Spiegai alla ginecologa dettagliatamente e minuziosamente i motivi per cui mi trovassi lì. In modo molto dolce e delicato, accoglieva ogni mia accorata spiegazione. Mi sdraiai sul lettino. Mi misi nella posizione che ormai conoscevo perfettamente.
Cominciò l’ecografia. Lei taceva, io fremevo. Lei sospirava, io trattenevo il fiato. Ricordo perfettamente ogni sua parola.
Mi guardò e senza battere ciglio mi disse: “ Marta io non so cosa abbia visto la collega in Germania, ma a livello ecografico, posso garantirti che si visualizza un embrione dotato di attività cardiaca della misura di 9,1 mm e totale assenza di questo ematoma sotto placentare”. Mi ci volle un bel po’ prima di interiorizzare a dovere le sue parole. “Ma come è possibile?” pensai rabbiosa e incredula. Fino a quattro giorni prima era lì, e ora puff, sparito. C’era una parte di me che esplodeva di gioia. La versione già mamma di me, quella tutta emozioni e poca razionalità. Ma l’altra, la donna scettica e distaccata che si faceva spazio tra le sensazioni positive, non riusciva a concepire che fosse tutto nella norma. Parlammo a lungo della possibili cause della diagnosi di aborto imminente ricevuta in Germania. Forse l’ematoma c’era stato veramente, ma si era poi riassorbito con la stessa velocità con la quale era comparso. Forse ma in modo quasi improbabile, era stato un errore della collega… forse, forse, forse. Non capii mai a livello scientifico cosa fosse realmente accaduto. Mi ricordai con commozione di quante volte Dio nella mia vita, mi avesse salvata. Beh Dio che nella mia vita si è manifestato in molti modi, forse, mi piace pensare, che l’abbia fatto anche in quella circostanza.

Coccole in gravidanza

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Diario della gravidanza di Marta. Capitolo uno

Ho scoperto di essere incinta

Firenze, 9 settembre 2016

Era sera. Io e Antonio stavamo festeggiando il suo compleanno posticipato di un paio di mesi. La location era fantastica. La cena a lume di candela e la musica classica di sottofondo, facevano da cornice alla magnifica vista su Firenze.

Dalla mail di prenotazione che ricevetti, questo era ciò che la serata nel castello ci avrebbe offerto: “Cena romantica servita su tavolo ottagonale in massello di castagno e marmo di Carrara con finitura in foglia oro. Poltroncine Savonarola in massello di cipresso, con finestroni panoramici sul notturno di Firenze.
Il tutto al lume di candela e musica classica di sottofondo.
14 antipasti, 2 primi, 2 secondi, varietà di contorni, ogni tipo di bevanda alcolica e analcolica, dolci e frutta”…
“Wow”, verrebbe da pensare. “N’altra cosetta no? Tipo l’odalisca che ve sventolava con un drappo di piume di pavone non c’era?”.
Ad essere del tutto onesti non ricordo gli alberi di castagno, i marmi in oro e Fra Girolamo Savonarola sotto i cipressi. Ma l’episodio che vide protagonista Antonio durate la cena, si che lo ricordo . Mentre cenavamo in quella atmosfera a dir poco surreale, non so spiegarvi come, ma gli scappò di mano il calice di vino. Anzi, dire semplicemente che gli scappò in realtà, è davvero riduttivo … gli fece fare un triplo salto mortale carpiato con avvitamento. Il bicchiere cadde a terra, frantumandosi in mille pezzi e costrinse la cameriera ad apparecchiare un’altra tavola rotonda alla corte di re Artù. La “morte” della coppa di vino, finì per rompere il silenzio di un’atmosfera quasi inverosimile, tanto era romantica, ma gli diede anche un tocco di autentico divertimento. Antonio poverino, mi guardò rosso in volto per la vergogna, e al tempo stesso col fare di chi vorrebbe irrompere con una risata fragorosa, ma come me, dovette trattenersi dallo sbellicarsi dalle risate. A suo sfavore inoltre, intervenne un non troppo simpatico commensale che per discolparsi, ci guardò di soppiatto dicendo che non era stato lui, cosa più che ovvia, visto che avevamo puntati addosso gli occhi di tutti. Il mattino seguente aprii gli occhi. Mi sentivo frastornata, tra il ricordo divertente della serata appena trascorsa e l’ansia di quello che stavamo per scoprire… ero incinta oppure no!? Un turbinio di emozioni si facevano spazio nella mia testa. Una rapida e disordinata successione di stati emotivi, scatenavano nel mio cuore, ansia, paura, trepidazione.

Mi decisi. Mi alzai. Dopo un attimo ero seduta in bagno, e i miei occhi facevano zapping dallo stick che tenevo nella mano destra, al foglietto illustrativo in quella sinistra.

FASE DI COMPRENSIONE mi affido alle istruzioni del test di gravidanza.

-Se nella finestra del test appare una linea, il risultato deve essere ritenuto positivo, ovvero indicativo di gravidanza in atto. Anche se la linea si presenta di colore chiaro. – Inoltre – la linea nella finestra di controllo deve comunque apparire, a garanzia che il test sia stato eseguito correttamente-.

FASE DI CONTROLLO guardo l’immagine sul foglietto e didascalia annessa.

La prima linea compare e dentro di me penso: “ok almeno la pipì, l’ho fatta nel modo giusto”.

Prossimo passo… ATTESA. ESTENUANTE.

Mi sembrava stesse passando un’eternità, eppure dopo una manciata di secondi, la vidi. La linea della vita, di una nuova vita dentro di me. Ero incinta. Mentre la mia mente viaggiava in un vortice trepidante di emozioni, sentii Antonio svegliarsi pacatamente.

Test di gravidanza di Marta

Mi avvicinai. Lui mi guardava, ma senza parlare. L’occhio cadde su quel bastoncino bianco che tenevo quasi gelosamente tra le mani. Glielo diedi e mi guardò con fare implorante di chi sa che valore abbia quel piccolo stick, ma lontano anni luce dalla capacità di decifrarlo senza indicazioni. Lo guardai e dissi:

sono incinta”. Che emozione guardarlo raccogliersi il volto tra le mani, mentre le lacrime uscivano intense, quasi violente. Come per liberazione, come se l’attesa snervante dei giorni trascorsi a sperare che le nostre preghiere venissero ascoltate, fosse culminata in quell’unico, irripetibile momento. Quant’è profondo il linguaggio del corpo. Come riesce a descrivere perfettamente anche l’animo più introverso. Il suo corpo mi parlava, anche se la bocca taceva. Ci abbracciammo e fu subito come se non fossimo più solamente in due, perché dentro di me era già nata una nuova vita


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