Diario della gravidanza di Anna. Capitolo sei.

Post parto

Ricordo i giorni del post parto con tanta amarezza. Da quel momento in poi cambiò tutto. Cambiò tono. Addirittura colore.

Tutto iniziò in questo modo.
Le mie gambe non volevano proprio collaborare. Si ostinavano a restare in un’immobilità insopportabile. Mi ritrovai allora come Beatrix Kiddo in Kill Bill alle prese con l’alluce. “Muoviti…”. Lo guardavo e ripetevo come un mantra. Le infermiere andavano e venivano. Le nuove visite post parto si facevano sempre più insopportabili. La ginecologa di turno arrivava ed esordiva “non mi respinga signora”, ed io “certo doc, come no, mi stavo appunto rilassando”, mentre con le mani, senza preavviso, affondava rovistando nella pancia e nella patata senza remore, contemporaneamente. Una doppietta insopportabile.

In ansia aspettando mia figlia

Erano ormai ore che non vedevo mia figlia. Mi avevano informata che “era un po’ freddina” ma che l’avrebbero portata in serata dopo aver fatto una seduta di lampada.
Ore 17, orario di visita. Arrivò il papà ma non riuscì a vederla. Si recò al nido, stanza attigua alla mia e gli ripeterono quanto scritto sopra. Riconobbe il pianto della piccola e chiese “è la stessa bimba che si sta disperando?” In risposta, un cenno del capo e una porta sbattuta in faccia . Il pianto disperato continuava. Restammo un altro po’ insieme, ma finito l’orario delle visite mio marito dovette andare. Passarono altre ore. Erano ormai le 21. Ancora nulla. A seguito delle mie richieste tutte ripetevano le stesse parole: “le faccio sapere – ora chiedo – ma stia tranquilla”.

Certo, come se fosse possibile. Mi sentivo impotente ed inutile oltre che preoccupata. Avrei voluto urlare “che cavolo vuol dire che è un po’ freddina? cosa le state dando da mangiare? latte artificiale? è chiedere troppo avere una spiegazione? e poi, non si è rosolata abbastanza sotto la lampada?”.
Eppure, ancora “drogata” di anestetico mi rassegnai. Insomma, ero pur sempre in un ospedale. Dovevo stare tranquilla. Se l’equipe del reparto fosse stata professionale come quella della sala parto, non avrei avuto nulla da temere, mi incoraggiai. Dovevo cominciare ad affrontare il post parto.

Finalmente una spiegazione

L’una di notte. Per evitare di infastidire nuovamente le infermiere indaffarate, mi ritrovai a chiamare il nido, telefonicamente. Ripeto, all’una di notte. Come un’idiota. Ovviamente nessuno rispondeva.
Cedetti, infine disturbai le infermiere chiedendo notizie di mia figlia, partorita tredici ore prima. Dopo una quarantina di minuti si presentò quella che, credo, fosse la capo reparto del nido. Mi spiegò che la bimba era “freddina”, (e questo lo sapevamo già), ma proseguì “comunque sia la prima notte dopo un cesareo d’urgenza non vi portiamo i piccoli in stanza, almeno potete riposare, il post parto è duro, si prepari ”.

Avrei voluto risponderle che avevo avuto ore per riposare se solo mi avessero dato notizie chiare e certe e non un rimpallo tra turniste. Mi ricordai però di essere una persona educata e dissi solo “ce la faccio dottoressa, grazie, sono ore che non la vedo, può farla portare per cortesia?”. Mi “accontentarono”, se così vogliamo dire. Ci accoccolammo insieme, la guardai in adorazione mangiare e poi dormire. Poi di nuovo attaccarsi al seno e crollare. E io non avevo bisogno di altro. Ero letteralmente in adorazione mistica. In una nuvola rosa fatta di amore e nient’altro.

Post parto

Il giorno seguente

Arrivò il pomeriggio seguente e mio marito lasciò che venisse mia madre a farci visita. Potevamo ricevere una sola persona.

Mia madre, seppur felice e sorridente dietro la mascherina, se ne andò in apprensione.

Mi aveva trovato gonfia d’aria, come un palloncino pronto a scoppiare. Non so bene come descrivere la sensazione, ma il mio addome, ormai molle, era un sobbalzare e scoppiettare continuo. Tutta quell’aria andava a premere contro i punti del taglio cesareo che cominciava anch’esso a fare male. Le ore passavano ed io iniziavo a contorcermi per il dolore. Non riuscivo a muovermi per le fitte allo stomaco, nonostante riuscissi a sopportare i punti che tiravano.

Il dolore oltre i punti

Chiesi aiuto all’infermiera di turno, poi a quella del turno successivo “è normale, hai avuto un cesareo”. Nel frattempo, io che ero nella stanza di fronte al loro ufficio, sentivo tutte le lamentele ad ogni campanello che suonava, tutte le chiacchiere tra colleghe che si dovrebbero pronunciare a bassa voce, o non dire proprio . “Non ti lasciano un attimo tranquilla” “il letto 15 è insopportabile” …e via discorrendo, preferisco non continuare perché vorrei poterlo dimenticare.
Umanità, ci vuole umanità se si sceglie quel percorso. Non è un lavoro, ma una missione. E tra quelle che ho incontrato io con mia figlia al fianco, di “infermiere” avevano ben poco.
Il dolore cominciava a darmi alla testa. Non resistevo più e non sapevo più come accudire mia figlia. Non potevo muovermi. Riuscii infine, con sforzo che oserei dire sovrumano, piangendo, ad alzarmi dal letto e a suonare il campanello dicendo “vi prego aiutatemi”.
Un’infermiera si avvicinò “signora non le posso fare niente, è normale che provi dolore e al momento la dottoressa è occupata e non la può visitare, ma le ripeto che è normale, deve sopportare”. Ed io “non riesco neanche a prendere in braccio mia figlia, la prego non sono i punti del taglio, sento un altro dolore oltre quello”. Rispose “può chiedere al nido se la tengono per un po’ ” e nel frattempo chiamò il reparto.

Bisogno di aiuto e vergogna

Iniziai a singhiozzare per il dolore e ad ogni sobbalzo percepivo una coltellata sul taglio. Provai quindi a premere con la mano sulla ferita per paura di sentire di nuovo quella fitta durante i singhiozzi. Le lacrime continuavano a scendere. Non riuscivo a placare il pianto neanche di fronte al nuovo, inaspettato, lancinante dolore che mi lasciava senza fiato. La mia compagna di stanza intervenne alzandosi dal letto “ma è possibile che non potete fare niente?”.
La situazione peggiorò, per quanto fosse possibile. Arrivò una donna bionda, del reparto nido. “Cosa c’è?” disse fredda. Cercai di ricompormi ed alzarmi, dato che ero letteralmente piegata su me stessa con una mano sulla pancia ed una sul letto. Tra singhiozzi, parole strozzate e disperazione le dissi “mi scusi ma non ce la faccio, potete prenderla voi?” Restarono entrambe a guardarmi, inermi, senza un briciolo di empatia nei confronti di una neomamma che chiedeva aiuto. Infine, dopo un tempo che mi sembrò lunghissimo, mi rispose “perché? Cosa c’è?”, stremata ed umiliata le dissi “non riesco a muovermi per il dolore”. Mi ammonì e chiese “sicura?” . Mi presi un attimo.
Non avrei mai voluto mandare via mia figlia, e mai e poi mai lasciarla a quella persona insensibile che avevo di fronte, eppure non ero in grado di accudirla in quel momento, il dolore non mi faceva ragionare.
Infine annuii abbassando la testa, sprofondando nella vergogna di me stessa. La donna prese la culla e proseguì con fare stizzito, facendo una mezza impennata mentre curvava per uscire. Quella sterzata fece svegliare la mia bambina, che ovviamente, pianse. Sparirono oltre la porta. No, ero ancor meno sicura di lasciarla nelle sue mani. Mi odiai dal più profondo del cuore per quella decisione. E ne piango ancora, ma non avrei potuto fare diversamente, io.

Loro si, loro sarebbero potute essere persone più preparate ed io mi sarei risparmiata una enorme delusione.
Infine la prima infermiera esordì “ti faccio una flebo di Plasil”, allora pensai “se funziona, brutta str***, ci sarebbe da dirvene quattro, a te e alla tua degna collega”.
Avrei tanto voluto ci fosse mia madre al mio fianco in quel momento. Si, mia madre, non mio marito. Lui le avrebbe abbattute entrambe. Senza colpo ferire. Il mio salvatore, il mio tutto, a volte, troppo, ma non in quel caso.

Il malessere psicologico nel post parto

Lentissimamente mi sdraiai (accartocciata) e continuai a piangere. Io che non dormivo da due notti e quella terza avevo trovato la forza per farmi lasciare la bimba, pur di vederla. Non potevo alzarmi per i dolori del taglio eppure l’avevo abbracciata, allattata, cullata, guardata dormire. Le avevo limato le unghie per non farla graffiare. Io che non ero conscia di essere sveglia da ormai quattro giorni, avevo resistito tutte quelle ore al dolore per non disturbare le infermiere e (ascoltando il loro asserire che fosse normale) avevo aspettato finché il dolore non fosse più tollerabile ed avevo finito col dover mandare via mia figlia.

Infine la soluzione nelle vene iniziava a fare effetto. Accovacciata nel letto continuai a piangere, ascoltando di nuovo le loro lamentele. Ne avevano una per tutti e 22 i letti, tranne il mio ovviamente, in quel momento. In lontananza le urla di mia figlia. Mi sentii tremendamente in colpa, terribilmente incapace, profondamente umiliata e duramente colpita. Mi sentii una madre inutile, e non potendo accanirmi contro le infermiere, rivolsi a me stessa le peggiori offese. Cercai di riprendere le forze, ma continuai a piangere fino alle sei di mattina, facendo eco a mia figlia che veniva riportata nella mia stanza, fortunatamente ‘sta volta, da un’altra infermiera.
Me la porse, la strinsi forte a me e smise di piangere, ed io con lei.

Di nuovo insieme

Quanto mi era mancata! Ricordo che le sussurrai “perdonami amore mio, mamma ora sta meglio, facciamo la pappa, prepariamo le valigie ed andiamo a casa da papà”. Nel frattempo la pancia sembrava essere molto meno gonfia ed il dolore all’addome molto più gestibile. I punti tiravano ma chissenefrega era il terzo giorno, dolori o meno saremmo tornate a casa.
H 8:00, con grande sacrificio misi in valigia quelle sole tre cose essenziali che avevo preso, per non disturbare, come al solito, le infermiere. Le riposi con lo stesso dolore che avevo avuto tirandole fuori. Riuscii a darmi una rinfrescata e mi cambiai. Litigai con le mutande a rete e l’assorbente post parto (che proprio non voleva restare in posizione),

in equilibrio precario su gambe deboli, braccia livide, addome dolorante e schiena piegata in due per non tirare ulteriormente i punti. Impiegai due ore per terminare quelle semplici azioni. Dopo qualche ora ci dimisero. Mio marito venne a prenderci per portarci a casa e cominciare un nuovo capitolo della nostra vita in tre. Ma questa è un’altra storia.

PICCOLA POSTILLA

Prima delle dimissioni si susseguirono degli eventi tragicomici, che preciso, non racconterò in questo articolo. Se mai un domani avrò il coraggio di postare quanto ho scritto (delle ore successive) in preda alla rabbia, leggerete cosa è successo quella mattina . Considerate che, quando scrissi il mio diario di gravidanza, ripensando a quell’aneddoto specifico, ero veramente tanto arrabbiata e usai parole molto forti, ed estremamente dirette. Avevo bisogno di esorcizzare il dolore provato la notte precedente. Il dolore fisico. Il dolore mentale. Il dispiacere per l’indifferenza di chi sceglie un lavoro che ha come base l’accudimento della persona fragile e non solo non se ne prende cura, ma peggio ancora, la schernisce e la umilia …

Ma anche questa è un’altra storia.

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2 commenti su “Diario della gravidanza di Anna. Capitolo sei.”

  1. Grande scri!! hai dato voce a tantissime donne che vivono momenti difficili, spaventosi e che invece di essere capite,vengono trattate come numeri invece che come persone dal personale sanitario in queste situazioni. Come se il fatto che loro abbiano sofferto a suo tempo o che “e sempre stato così “giustifichi la cosa.
    In più ci mettiamo che hai vissuto tutto in piena emergenza covid?? Sei una grande, lo sei sempre stata oltre che una grande amica sei e sarai una grande mamma.

    1. Cara Scri, amica sempre presente. Grazie per le tue bellissime parole. Speriamo di riuscire, nel nostro piccolo, ad essere di conforto a tutte quelle mamme che si sono sentite sole, nel disagio psicologico e nell’indifferenza sofferta, nel periodo in cui avrebbero avuto bisogno di maggior sostegno. essenzAMamma nasce con questo proposito. Siamo ancora all’inizio del nostro cammino, c’è ancora molto da scrivere e ancor di più. Il vostro sostegno è importante per noi, quindi grazie davvero.

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