L’arrivo in ospedale
Erano solo le 5 del mattino quando arrivai in ospedale e non ero ancora in travaglio ovviamente e il parto era decisamente lontano. Ci sarebbe voluta ancora qualche ora. Un’ostetrica simpaticissima mi attaccò al monitoraggio e mi chiese: “sei a termine? ” “si sono a 39 più 4” le risposi. ” Mettiti comoda signò, ci potrebbero volere pure 48 ore”.
Risultato = donna in procinto di partorire, terrorizzata. Alla faccia della solidarietà femminile, pensai.
Dopo più di un’ora interminabile, mi diedero la stanza. Stanza 2 letto 2 e mi feci prendere da un istinto convulso di disinfettare praticamente tutto. L’armadio, il comodino, le finestre e la tazza del WC, stile anti-Covid dei giorni nostri. Le ore passavano, conobbi le mamme in dolce attesa che avrebbero condiviso la stanza con me. Arrivavano messaggi, chiamate, visite. Ma tutto il resto, quello importante, taceva. Intorno a metà mattinata tornai di nuovo nella stanza del monitoraggio insieme ad Antonio e immortalammo gli ultimi momenti in cui saremmo stati solo in due.

Verso l’ora di pranzo seguii la ginecologa di turno nella stanza delle visite.
Controllo della situazione ai piani bassi. Ennesime dita che “smanacciavano” lì dove non batte il sole. Tutti ad attingere alla stessa fonte.
“Ci vorrà solo un attimo” disse la dottoressa. Nemmeno il tempo di rispondere che, con due movimenti rapidi e circolari, mi lasciò con la sensazione che dovessi raccoglierla da sopra il lettino, tanto mi avesse fatto male. Naturalmente non voglio fare del terrorismo psicologico, sia chiaro. Perché ogni mamma è a sé, così come la percezione e la soglia del dolore, ma lo scollo dell’utero, fu una vera e propria tortura. Per carità stava solo facendo il suo lavoro, quella donna, ma ebbi quasi l’istinto di ucciderla. Posso fare questa ammissione?. Naturalmente l’unica cosa che seppi fare, fu tacere e morire interiormente dal dolore. Tornai in stanza.
Il travaglio vero e proprio
Erano le 13 del pomeriggio quando entrai nel travaglio vero e proprio. C’era un via vai di gente. Familiari in visita per me e le compagne di stanza. Non riuscivo a sopportare niente e nessuno. Mi sentivo soffocare tra quelle quattro mura. I dolori si facevano via via sempre più forti. Tutti mi guardavano, ma io ero troppo attenta a deviare gli sguardi delle persone, piuttosto che pensare alla respirazione e tutte quelle cose fondamentali del travaglio. Avevo solo bisogno di concentrarmi sul viso di Antonio e sul tono di voce pacato che usava, per parlarmi e distrarmi. Le contrazioni cominciavano ad avere una cadenza regolare. Non potevo più stare in mezzo ad un mare di gente in un momento particolare e delicato come quello. Anche in quella circostanza venne scattata qualche foto, la mia “sofferenza” era palpabile.

Con passo felpato, sostenendomi il cocomero O.G.M. formato XXL che avevo al posto della pancia, me ne andai finalmente nella stanza del travaglio con Antonio al seguito. Rimasi praticamente sdraiata sulla poltrona per 12 ore, intervallate solamente dal “mi scappa la pipì, vado in bagno”. Antonio era semplicemente, FENOMENALE. Il ragazzo di 25 anni che era stato in lui fino ad allora, aveva lasciato spazio all’uomo e ormai quasi papà, consapevole che non avrebbe potuto sostituirsi a me, né tanto meno alleviare il mio dolore, ma avrebbe potuto sapientemente e coraggiosamente accompagnarmi in quel cammino, per me in particolar modo, fisicamente e mentalmente doloroso, che ci avrebbe condotto verso la nascita di nostro figlio.
Un intero travaglio seduta
Intanto continuava l’andirivieni di ostetriche, ginecologhe, infermiere, ecc ecc … . Verso l’ora di cena, Antonio ebbe la splendida idea di farci portare la pizza ed io, che ne farei indigestione, accolsi l’idea con grande enfasi, tipo bambina felice davanti al negozio di caramelle. Mentre mi abbuffavo di pizza, guardavamo sul cellulare la partita di serie A del Milan, che poco prima dell’intervallo perdeva 1 a 0 contro l’Atalanta. Potete immaginare quanto amore provasse Antonio nei miei confronti?.
Rimase seduto immobile su una sedia per 12 ore. Sorbì e subì i miei deliri farneticanti. Ma il sacrificio più grande in assoluto fu guardare una partita del Milan nonostante la sua fede calcistica per l’Inter.
Così, distratta dalla cena e dalla partita, accoglievo inconsciamente le contrazioni, in modo dolorante, ma quasi sopportabile. A 3 minuti dal fischio finale, la mia squadra del cuore riuscì a pareggiare una partita poco entusiasmante. Digerita la scorpacciata e non più deconcentrata da altro, i dolori si fecero sempre più insopportabili.
Epidurale o non epidurale. E’ questo il dilemma
Avevo deciso di partorire in un ospedale in cui non sarebbe stata praticata l’epidurale per alleviare il dolore durante il travaglio. Di questo ero più che consapevole, ma ci fu un momento in cui implorai che mi dessero qualcosa.
Mi resi conto che all’arrivo di ogni contrazione, smettessi di respirare. Me ne accorgevo qualche secondo prima perché riuscivo ad identificarle attraverso il monitor del tracciato, ma non potevo fare a meno di restare in apnea.
Mi scese una lacrima. Ero stanca, afflitta e sconsolata. Dolorante, ma al tempo stesso trepidante di vedere mio figlio venire al mondo.
Avevo perso la lucidità. Sapete che fui investita da una macchina, alla tenera età di tre anni? e come allora, forse per istinto di sopravvivenza e per tutta la vita, ho sempre avuto un’ altissima soglia del dolore. In quella circostanza però, non ne potevo più.
Le apnee continuavano. I controlli del ginecologo papà castoro e delle ostetriche si facevano sempre più frequenti, fino a che mi girai verso Antonio e vergognandomi gli dissi che forse non ero in grado. Mi guardò e in modo dolcemente autoritario mi disse testuali parole “ se tu non respiri, non respira nemmeno Chicco (nomignolo). Vuoi che lui non respiri???????”. Fu come se mi avesse dato uno schiaffo per farmi riprendere da uno svenimento. Servì però. Fu tutto più nitido. Ennesima volta che Antonio riusciva a dimostrarsi per l’uomo che era diventato. Fu davvero di vitale importanza averlo con me per tutto quel tempo. E ancora oggi, a distanza di 5 anni e mezzo, ringrazio Dio per averlo avuto accanto in quel delicato, difficile, importante e irripetibile momento della nostra vita insieme.
PICCOLA POSTILLA
Ho descritto un Antonio FENOMENALE in diverse occasioni, ed ho tenuto a sottolinearlo con grande riconoscenza e commozione. Ciò non vuol dire però che sia perfetto o perfetta sia io o la nostra storia. Anzi tutt’altro che questo. Il nostro, come qualsiasi altro rapporto di coppia, non è, non è stato idilliaco e non lo sarà mai. Ci sono alti e bassi, a volte più bassi che alti. Non siamo di certo la famiglia del Mulino Bianco. Bensì un uomo, una donna. Un marito e una moglie. Un papà e una mamma con i loro amatissimi pregi e i loro fastidiosissimi difetti.
Dopo il pacato ammonimento di Antonio capii che dovevo cambiare categoricamente modo di approcciarmi a quella situazione. Presi coscienza che agire e reagire in quello stato confusionale, (restando in apnea e irrigidendomi completamente), non solo non avrebbe condotto a nulla , bensì avrebbe apportato meno ossigeno al bambino, e portato me all’esasperazione.
Capii quale fosse il modo più adatto.
Dovevo uscire dal mio corpo, ma al tempo stesso restarci dentro con l’aiuto di una giusta e regolare respirazione.
Penserete “ma che hai detto? mò questa parla pure di esperienze extra corporee.. se vabbè…” . Non parlo ovviamente di strani riti ultra terreni, ma di un atteggiamento consapevole difronte al dolore. Non potevo evitarlo, ma affrontarlo questo sì. Ero obbligata. Antonio mi aiutava, avvertendomi dell’arrivo della contrazione attraverso il monitor . “Amore, preparati sta per arrivare”, mi diceva. In questo modo potei accogliere con dolore, non lo nego, ma anche con grande forza, lo tsunami che si scatenava in me durante la contrazione. Diciamo che il procedimento era presso a poco questo:
– Accogliere la contrazione: inspiravo profondamente e lentamente ad occhi chiusi.
– Ammortizzare il dolore: al momento dell’arrivo, facevo un’espirazione lunga e controllata che accompagnava il dolore, fino a che lo stesso si attenuava gradualmente.
Andai avanti in questo modo, con quel dolore forte, a tratti insopportabile, per un tempo che mi sembrò infinitesimale, ma la “strategia adottata: esci da questo corpo/rientra in questo corpo” mi aiutò davvero.
Il parto
Era all’incirca 00:15. Riprese la processione delle ostetriche/infermiere/ginecologo. Altro rapido controllo al pian terreno. 1 cm di dilatazione. Devo dirlo di nuovo. Dopo quasi 12 ore di travaglio ero dilatata di 1 solo dannatissimo e maledettissimo cm.
Non riuscivo a capacitarmi. Mi vennero in mente le parole della prima ostetrica che incontrai la mattina. Si proprio quella che mi disse di mettermi comoda, perché avrei potuto impiegarci anche 48 ore. “Me l’aveva tirata” per caso?.
Mi immaginai dopo due giorni di travaglio e di stimolazione farmacologica con ossitocina, spingere urlando paonazza in volto, completamente madida di sudore, con la cipolla scomposta in testa, cadente sul viso, come quelle nei film, che solo a vederle passa a priori la fantasia di fare figli.
Invece no.
“Marta mi dispiace ma dobbiamo prepararti per il cesareo”. Mi dissero. Volete proprio saperlo? In cuor mio e in una piccola porzione del mio cervello, sapevo esattamente che sarebbe andata così. Sapevo che mio figlio sarebbe nato con un parto cesareo, non mi chiedete il perché, ma lo sentivo.
(A posteriori avrei saputo dal ginecologo che se non fossero intervenuti con un cesareo, avrei potuto trascorrere altri nove mesi su quella poltroncina, perché mio figlio, nonostante fosse in posizione cefalica già dal settimo mese di gravidanza, aveva deciso di piegare la testa da un lato, in termini tecnici, distocia cervicale, all’atto pratico, stava bene comodamente dove stava).
Da quella notizia in poi però, crebbe la mia frustrazione. Ero stanca. Sfinita. Volevo stringere il mio bambino e dormire. Il primo desiderio sarebbe stato fortunatamente realizzato, per il secondo, ne riparleremo tra 100 anni.
Catetere. Camice. Barella.
“Marta saluta Antonio”.
A questo non ero proprio preparata. Pensavo che mi avrebbe assistita in sala operatoria, come lo aveva fatto durante tutto il travaglio. Che mi avrebbe accompagnata fino alla fine di questo “percorso”. Che mi avrebbe tenuto stretto la mano e ci saremmo emozionati insieme, ascoltando il primo pianto di nostro figlio. Ahi-noi non fu così. Mi tolsero la vicinanza dell’unica persona di cui avevo bisogno in quel momento. Fu davvero dura per entrambi. Antonio era visibilmente affranto e dispiaciuto. Avevamo fatto tutto quel cammino insieme per poi essere separati sul più bello. Mi baciò calorosamente con gli occhi pieni di lacrime e non potei fare a meno di piangere anche io. Ci guardammo teneramente finché non scomparii entrando nell’ascensore che mi avrebbe portata direttamente in sala operatoria.
Mi sentivo persa senza di lui, ma restava un ultimissimo sforzo da fare per tutti e tre.
La sala operatoria
Sala operatoria, odore acre di antisettico. Strumentario chirurgico sterilizzato e maniacalmente ordinato, pronto per essere usato su di me. Non avevo paura in questo senso. Non mi hanno mai impressionato bisturi, aghi, divaricatori ecc ecc … anzi non vedevo l’ora che finisse tutto per il meglio, non dico che “fremevo dalla voglia di farmi tagliare come un pollo”, ma volevo conoscere mio figlio.
L’anestesista disse: “Marta ora dobbiamo fare la puntura spinale, ma devi stare molto ferma e pronta perché dobbiamo sfruttare l’intervallo tra una contrazione e l’altra”. Ricordo per la stanchezza, di essermi quasi accasciata sull’infermiera che mi teneva stretta davanti. Puntura dell’ago. Forte pressione dietro la schiena. Andata. Mi adagiarono delicatamente sul letto.
Posizione a 4 di spade. Al braccio sinistro sfigmomanometro per monitorare che la pressione non schizzasse alle stelle o subisse un netto calo e tenere sotto controllo tutte le altre funzioni vitali. Al braccio destro ago cannula e infusioni varie.
Gambe stese, una da un lato una da un altro. Voci che parlavano, che mi domandavano, mi rassicuravano. Papà castoro mi chiese come mi sentissi. “Ah beh, ricordavo di avere un paio di gambe qualche minuto fa”. Immobilità. Insensibilità. Non riuscire a muovere gli arti inferiori fu davvero una sensazione bruttissima. Non vedevo nulla naturalmente, perché c’era un telo verde difronte a me, ma provai ad immaginare la coppia di Edward mani di forbice tagliuzzare diversi strati della mia pelle.
Si percepiva nell’aria un olezzo di carne bruciata, come l’odore che si sente entrare nel naso dopo aver acceso una sigaretta e insieme a quella anche i peli delle narici annessi. L’odore era pungente. Quello che sentivo bruciare era ovviamente la mia pelle sotto il bisturi elettrico. Le mani continuavano ad operare. Il cadenzato “bip” dei monitor suonare…
La vita
Quand’ecco irrompere nell’aria il suo primo flebile vagito, susseguito da un pianto acuto. “Eccolo questo bel maschietto, come lo chiamerai MAMMA?”. “Francesco” e di getto aggiunsi, “sta bene?” “il vitellino sta benissimo MAMMA”. (naturalmente se per papà Castoro lo era stato per tutti i nove mesi, non poteva che esserlo anche alla nascita ovviamente).
14.05.2017
ore 01.00
3,3 kg
51 cm
Francesco, che sarebbe dovuto nascere 4 giorni dopo, nacque non solo nel giorno del compleanno del mio adorato nonno Francesco, per tutti Giulio (si lo so questa è buffa ve la spiegherò un giorno), ma anche della festa della mamma, facendomi il regalo più bello che abbia mai ricevuto in vita mia.
Ero diventata MAMMA a tutti gli effetti, non riuscivo a crederci. Le lacrime scendevano a cascata. Scoppiavo di felicità. Lo avevo già amato dal primo momento in cui scoprii di aspettarlo, ma ora lo amavo consapevolmente.
Lo avvolsero in un telo mentre piangeva ancora e lo adagiarono delicatamente accanto al profilo del mio viso. “Benvenuto al mondo amore di MAMMA” gli dissi e improvvisamente tacque quando lo baciai in fronte.

Era mio FIGLIO. Attraverso il mio corpo, era stata messa al mondo una vita. La sua.
Io ricordo ancora tutto di quella notte.
La ricorderò per tutta la vita. Quella è stata la notte in cui dopo tante ore di attesa e una bella cicatrice a forma di sorriso sulla pancia, insieme a lui sono rinata anche io. Posso dire che lui sia stato il primo, che sa, come batte il mio cuore da dentro.
Continua al capitolo 6, Post parto
Torna al capitolo 4, Ultimi giorni di gravidanza
Mori?, (da premettere che anche qui, ovviamente, non ti chiamerò Marta, perché proprio non ci riesco?)
Come sempre riesci con i tuoi racconti a farmi emozionare e allo stesso tempo morire dal ridere!
Le foto di questo quinto capitolo sono stupende ma la mia preferita è quella che immortala il tuo papà baciarti la fronte, in modo dolce e premuroso durante il travaglio?
E io non potrei che risponderti allo stesso modo. Tu resti sempre mori! Grazie per le tue parole. È importante sapere di suscitare emozioni e sensazioni positive, come divertire e al tempo stesso commuovere. Ancora grazie
Amore di mamma,
Mi hai fatto emozionare…ho rivissuto quelle lunghe ore, la preoccupazione, il dispiacere nel vederti soffrire…e poi una gioia immensa!!! Mi piace il tuo modo di scrivere, scorrevole, fresco, scanzonato, continua così. Baci mami???
Mami… So che se avessi potuto, avresti preferito soffrire al posto mio. Ora da mamma so cosa significhi vedere un figlio stare male. Nonostante ciò, la tua vicinanza è stata una costante nella mia vita. GRAZIE DI CUORE.
Sarà che ti conosco da una vita, sarà che abbiamo tanto in comune, sarà che mi lega a voi un filo invisibile…. fatto sta che mi sono emozionata come se fossi parte della famiglia! Brava Marta.. sei grande!
Cara Pina ho provato una grande emozione leggendo il tuo commento e ringraziarti infinitamente forse non sarebbe abbastanza! È emozionante per me, sapere di aver suscitato sensazioni tanto positive, in una super mamma e nonna come te! GRAZIE DI CUORE!Sempre forza Milan e Baglioni Number One! (Noi sappiamo …?)
❤️??
Forza amore!