Post parto
Mio figlio era nato, ed era stato tutto molto doloroso, ma non immaginavo che il post parto, sarebbe stato forse ancora più duro. Portarono il piccolo in sala nascita per tutte le cure neonatali, mentre a me “riassemblavano i pezzi”.
Scoppiavo d’amore e di felicità ma la stanchezza cominciava ad assalirmi. Avevo bisogno di dormire. L’effetto della spinale era ancora in corso, perché dall’ombelico in giù non percepivo proprio nulla. Dopo aver terminato e infuso la morfina, mentre mi riportavano in stanza, incrociai gli sguardi inebriati di Antonio, dei miei genitori e dei miei suoceri, che mi accolsero tra lacrime di gioia. Guardai mio marito e mentre le lacrime gli rigavano il volto gli chiesi se l’avesse visto. Annuì e aggiunse :”è bellissimo”. Nostro figlio! Finalmente dopo tanti mesi, trascorsi tra incertezze e paure, era nato e aveva appena cominciato a riempire le nostre vite.
Il rientro in stanza
Da infermiera avevo mobilizzato tante volte i pazienti dalla barella al letto, dopo essere stati sottoposti ad un intervento chirurgico. Stavolta però la paziente ero io, per cui capii come si sentivano. Quel semplice gesto infatti si rivelò quasi un’impresa titanica. Potevo muovere praticamente solo il mezzo busto. Dovetti strisciare con la parte superiore del mio corpo, perché le gambe addormentate di certo non avrebbero potuto collaborare. Fortunatamente le infermiere si sostituirono a me, almeno per quello. Ero finalmente nel mio letto. Sfinita. Con un occhio chiuso e uno aperto, intravidi la mia adorata sorella Anna. Era passata a darmi un volante bacio affettuoso, non senza aver prima litigato con le infermiere, perché le permettessero almeno di salutarmi, vista la tarda ora della notte. Fu mitica come sempre, poi mi diede un bacio in fronte, e se ne andò con gli occhi lucidi. “Grazie Nì per la tua presenza costante”!
Quando l’effetto dell’anestesia svanì
Provai ad appisolarmi perché mi sentivo davvero come “un mocho per lavare per terra”. Ero sfinita. Pensai: “oddio finalmente posso dormire”. Crollai pesantemente. Trascorse davvero pochissimo tempo, che sobbalzai per il dolore. L’effetto dell’anestesia spinale era terminato. Cominciai a sentire a livello dell’addome delle contrazioni fortissime, come quelle percepite nelle ultime 12 ore di travaglio. Era come se tutti i miei organi si stessero contorcendo, uno ad uno. Urlai tra me e me. Le gambe pesanti e formicolanti, cominciavano a “risvegliarsi”. Mi sentivo malissimo. In lontananza percepii delle voci ed un cigolio di rotelle che si avvicinava. Avrei appreso dopo qualche minuto, che si trattata della culla in cui si trovava mio figlio, le cui rotelle emanavano un rumore stridulo e fastidioso.
Piangevo e mi vergognavo. Avevo un desiderio immane di guardarlo, stringerlo, accarezzarlo, ma non ce la facevo. Non riuscivo a muovermi, avevo necessario bisogno di riprendermi, ma non ne avrei avuto tempo. Dovevo mantenere la posizione supina (sdraiata ovviamente) per 24 ore senza muovermi di 1 solo cm, senza bere né mangiare. Dissi all’infermiera pediatrica di provare molto dolore, ma senza curarsi troppo di me, mi adagiò mio figlio sul petto e se ne andò. Sprofondai in un abisso di disperazione e realizzai che se non avessi avuto in braccio mio figlio, bensì tra le mani un qualsiasi oggetto contundente, glielo avrei lanciato furiosamente addosso. Fortunatamente però, prima di commettere qualcosa di illecito, arrivò un’ostetrica gentilissima che mi aiutò con fare quasi materno.
Lei riuscì con estrema delicatezza e professionalità a farmi capire come allattare mio figlio al meglio, nonostante le difficoltà e le incertezze, a cui avrei dovuto far fronte anche nei giorni successivi. L’ostetrica capì che non avrei potuto tenere con me il bambino quella notte. Non avrei potuto occuparmi autonomamente di lui, perché mi era stato fatto divieto di alzarmi e in ogni caso, per il dolore intenso che provavo, facevo fatica anche a tenerlo sul petto per allattarlo. Mi dispiacque tantissimo. Piangevo e mi sentivo inutile e inadatta. L’ostetrica capì il mio stato d’animo, e un po’ come fosse una mamma, mi esortò a concentrarmi sulla graduale ripresa psico-fisica di cui avevo bisogno, piuttosto che naufragare nei sensi di colpa. Riportò il piccolo al nido.
“Collassai” totalmente, anche se per via dei dolori ogni tanto mi svegliavo.
“Tro-tro-tro-tro-tro”. Svegliaaaaa !!!!!! cigolio di rotelle = arrivo del bimbo nella culla e poppata. “Mamma mia signò tuo figlio ha pianto tutta la notte, ti farà vedere i sorci verdi”. Disse l’infermiera stronza al posto del “buongiorno” ( e qui non ometto la parolaccia perché quando ce vò ce vò!). Come far sentire ancora peggio una neo mamma che già si sente uno schifo, per non essere riuscita a prendersi cura del suo bambino? Non seppi risponderle niente, non avevo nemmeno le forze per oppormi a quell’uscita infelice. Spesso ci si dimentica l’umanità e in un ospedale, dove ci si dovrebbe sentire più protetti, capita purtroppo, di ricevere trattamenti di questo tipo.
Mi concentrai su mio figlio. La seconda poppata andò meglio della prima. Non egregiamente, perché i miei capezzoli retrattili mi remavano contro. Eppure il bimbo sembrava accontentarsi, ma soprattutto, come natura vuole, sapeva già in che modo nutrirsi, come l’aveva saputo fare già da subito. Intanto i dolori forti continuavano a più riprese, era un continuo di antidolorifici, che sembravano davvero fare l’effetto dell’olio sull’acqua. C’erano poi delle cose che speravo davvero non accadessero ulteriori volte, tipo gli starnuti e i colpi di tosse. A questo proposito:
DOMANDINA
“Mamme cesareo” avete maledetto anche voi starnuti o colpi di tosse nel post parto? Era un’agonia quando capitava, o sbaglio?
Finalmente tutti e tre insieme
Arrivò la sera. Antonio poté finalmente conoscere suo figlio. Ebbene sì, dopo 20 ore dalla sua nascita, il papà non aveva ancora stretto tra le braccia il suo bambino. Entrò in stanza si sedette accanto a me. “Com’è piccolo” esclamò tra le lacrime, poi lo prese e lo strinse a sé, come per farsi riconoscere, come per trasmettere a quel cucciolo d’uomo tondo tondo, tutto l’amore che provava. Ci concessero di trascorrere un paio di ore insieme e fu meraviglioso, anzi decisamente miracoloso. Il miracolo della vita si era compiuto attraverso il nostro amore e lo stavamo guardando negli occhi.

Il post parto del giorno dopo
Le prime 24 ore dal parto erano trascorse. Seppur duramente, ma erano trascorse.
Il giorno successivo, nel secondo giorno post-operatorio tra dolori e poppate, mi tolsero il catetere.
La sofferenza che provai nel momento in cui insieme a due infermiere provai ad alzarmi, non credo riuscirò a spiegarla a pieno.
Le gambe non mi sostenevano. I crampi addominali mi imponevano di incurvarmi su me stessa.
Mi sembrava di dover muovere una montagna. La montagna da spostare ero io stessa però. Questo era il problema più grande da risolvere. Come un bradipo in agonia guardavo la porta del bagno, a soli due metri da me, come fosse un miraggio nel deserto. “Evviva mi sono seduta! C**** e mò chi mi rialza” . Ma ero andata già troppo avanti. Avrei dovuto prima fare pipì. Forse provai anche i dolori del parto naturale, non lo so, perché anche quel piccolo, consueto e normalmente indolore gesto, mi sembrò una tortura. Mi assicurai di averla fatta tutta, pur di non dover partire di nuovo per le crociate, verso un suicidio assicurato. Alla fine tornai a letto e cercai di sdraiarmi con la stessa difficoltà con cui mi ero alzata mezzora prima.
Mi fecero un’altra concessione. Bagnarmi le labbra “pe-pe-pe-pe-pe-pe-pe” io che di norma bevo 2 litri e oltre di acqua al giorno?!? aiutooooo non ne potevo più.
Le visite di parenti/amici/amici di parenti/parenti di amici ecc ecc… continuavano e tutti ripetevano la stessa identica frase:“ è identico al papà, però ha le tue orecchie”. Non che mi dispiacesse figuriamoci, ero consapevole di aver partorito mio marito in miniatura. Ma santa pace, dopo tutta la sofferenza, manco la soddisfazione della somiglianza??? però aveva le mie orecchie …
A-VA-BBE’.
“Rullo di tamburi”
Breve altra storia. Il terzo giorno post-operatorio cominciò con un ammonimento da parte del personale sanitario, rivolto a me e alle due compagne di stanza. “Dovete liberare l’intestino”. In poche parole dovevamo far arieggiare i nostri posteriori. “Uh Gesù”. Io che non mi sono mai data delle arie alle mie spalle, dovevo far suonare i tamburi. Non si poteva di certo soprassedere, perché se non l’avessi fatto, non mi avrebbero dimessa il giorno seguente. “Ma anche no, voglio tornare a casa” mi dissi tra me e me. Mi misero una peretta in mano.
Fine della storia.
In compenso però dopo aver assolto, parzialmente per me, (totalmente per ginecologi and co.) il compito assegnatomi la mattina, finalmente vidi qualcosa di commestibile sul tavolino.
Fette biscottate e tè. Le mangiai con la stessa foga di un facocero.

Passò anche quella giornata e piano piano riuscivo ad occuparmi sempre meglio del piccolo, con non poche difficoltà devo ammetterlo, perché i dolori erano ancora molto forti, ma il mio amore per lui andava davvero oltre tutto il resto. Arrivai quasi arrancando al quarto giorno post-operatorio, il giorno in cui finalmente saremmo tornati a casa. Dovevamo entrambi passare al vaglio dei medici. Intanto, nonostante le tante tutine carine portate al piccolo per il ricovero e i diversi cambi anche per me, all’uscita eravamo tutti e due un po’ imbrattati di rigurgito lattescente. Era cosparso tra i miei capelli e depositato nell’incavo tra la clavicola e il collo. Quella fu una condizione inevitabile con la quale imparai a convivere senza farci troppo caso. Anzi, enfatizzavo ironicamente l’importanza nell’uso del gel naturale per capelli, a base di “latte di Chicco”.
Squillo del telefono. Dentro di me penso, “questo sarà Antonio che sta facendo a cazzotti con il passeggino, mi ci gioco casa”. “Amò senti ma come si chiude sto coso”.
The winner is … Martaaaa!
“Lo sapevo”.
Dopo averlo redarguito a dovere sull’essersi fatto trovare impreparato, dopo che per due mesi lo avevo esortato a seguirmi nelle indicazioni ed aver ottenuto come risposta “ e che ce vò”, gli spiegai in maniera molto elementare, le operazioni di apertura e chiusura dello “sposta bambino”. Ah gli uomini …
Le dimissioni
Nullaosta per noi. Potevamo tornare a casa. Non mi sembrava vero. Avevo la sensazione di essere entrata in quell’ospedale una vita prima, in realtà, realizzai che fu proprio così. Ero entrata con la pancia enorme della mia vita precedente, quando inconsapevole e impreparata, non avevo la minima idea di cosa significasse profondamente diventare madre. 4 giorni dopo ne ero uscita con il dono più grande che Dio potesse farmi. Mio figlio.
Ero ancora ignara di molte cose, ma sapevo con certezza che fossi nata per quello.
Io ero nata per essere la madre di mio figlio. Imperfetta, troppo precisa, maniacalmente attenta, ma perdutamente innamorata di quell’esserino meraviglioso che aveva stravolto la mia vita, migliorandola.
A lui dovevo e devo tutto. Mi ha insegnato a vivere, ad amare senza pretese, a ridere di gusto e piangere inconsolabilmente.
Mi ha insegnato che pur essendo piccoli, si può essere davvero grandi.
Grazie a lui so cosa significhi veramente vivere per e in funzione di qualcuno, perché io vivo per e in funzione di lui, pur mantenendo la mia identità di donna (o almeno ci provo).
Lui rappresenta una delle più grandi riuscite della mia vita.
Il mio meraviglioso principino con gli occhi che sorridono.
E’ parte del mio tutto, del mio mondo.
Leggi il Diario di gravidanza di Anna
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